lunedì 18 aprile 2011

Perché le bonifiche friulane non assomigliano a quelle pontine?






















Esempi di bonifiche a Latina (sotto)


confrontati con quelli di Aquileia (sopra)


Verso la metà degli anni Trenta del secolo scorso le bonifiche integrali della Bassa Friulana cambiarono il volto di una importante parte della regione, proprio mentre i grandi problemi della crisi economica rendevano più acuta la disoccupazione. Una delle risposte fornite dalla classe politica locale e dal prefetto Temistocle Testa, fu quella di attivare una forma di emigrazione interna che portò centinaia di famiglie friulane a colonizzare le grandi bonifiche pontine prima, e l’Africa Orientale poi. In questa sede non ci interessa far notare le modalità di questo consistente esodo, ma il diverso esito formale raggiunto dalle bonifiche pontine rispetto a quelle friulane. Infatti, la pubblicistica fascista marcò con forza il fatto che, a famiglie povere e prive di sostentamento in patria, lo stato forniva una casa e un piccolo podere per l’autosussistenza. Una piccola proprietà da riscattare che permetteva all’agricoltore, molto spesso un mezzadro, di diventare un piccolo proprietario.
La forma di questa colonizzazione ci restituisce un insediamento a maglia fina, come lo vediamo di seguito con alcune immagini della campagna di Latina. Lungo le strade di bonifica le piccole aziende si affiancavano le une alle altre costruendo dei cordoni insediati che oggi potrebbero essere confusi con le modalità di consolidamento della città diffusa. Invece si tratta dell’evoluzione di un originale modello insediativo che affiancava poderi di circa 10 ettari uno all’altro. Appunto una maglia fine che in Friuli manca, se non in situazioni particolari. Se confrontiamo la forma evoluta della bonifica laziale con quella, per esempio, aquileiese notiamo immediatamente che qui le maglie sono molto più larghe, le case pochissime, molto spesso grandi e abbandonate. La dimensione di queste “terre nuove” è quella della grande azienda e non del piccolo agricoltore. Mentre la crisi economica degli anni ’30 creava più di 50.000 disoccupati nella sola provincia di Udine, il regime locale sceglieva di intervenire nelle bonifiche della bassa non creando nuove terre per i disoccupati, ma proponendo un sistema di colonizzazioni latifondiste spesso lasciate a imprenditori che non facevano parte del tessuto sociale friulano. Il ruolo del milanese Bisgnami nel riordino delle paludi di Precenicco è chiarissimo, così come è esemplare il coinvolgimento di Franco Marinotti e della lombarda Snia nei territori di Torviscosa. C’è da chiedersi perché il potere politico udinese escluse l’ipotesi di un insediamento a maglie fitte come quello che nel goriziano fu prodotto nella speciale bonifica del Fossalon. La volontà esplicita di non creare nuove piccole proprietà autosufficienti, che era un motto propagandistico dell’esperienza politica fascista, perché nell’udinese fu sacrificato a favore di un sistema di grandi proprietà? La Bassa friulana sarebbe un paesaggio completamente diverso se si fosse scelta la “misura” e le modalità della colonizzazione pontina. Anche i fenomeni di delocalizzazione e di abbandono della residenza agricola avrebbero degli esiti paesaggistici molto diversi. Le grandi aziende agricole ancor più meccanizzate hanno ancor meno bisogno di manodopera e per questo molte case coloniche sono state abbandonate e interi settori della bonifica spopolati. L’accordo che negli anni ’30 fu stretto tra il “prefetto di ferro” Temistocle Testa e alcuni imprenditori che non erano legati al PNF di Udine è un episodio della nostra storia recente ancora tutto da spiegare. Proprio per questo motivo ci sentiamo di lanciare un appello agli storici dell’agricoltura affinché si predispongano degli studi che ci facciano capire perché in Friuli, e in parte in Veneto, si pervenne a una bonifica strutturata sul coinvolgimento diretto di grandi capitali, mentre a Gorizia e nel Lazio lo Stato svolse una funzione ordinatrice e di disegno territoriale completamente diversa.

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