sabato 11 settembre 2010

MONUMENTI & PAESAGGIO



L’Ara Pacis di Medea è senza dubbio uno dei monumenti più singolari del Friuli Venezia Giulia. E’ contemporaneamente un belvedere, un punto di vista, e allo stesso tempo un Landmark di grande suggestione che chiude fisicamente il panorama del territorio goriziano. Nella sua assenza di volumi, gli alti muri sono privi di copertura, denuncia di essere una architettura che tiene in grande considerazione l’aria e la luce. Il trattamento delle superfici e il biancore del travertino giocano continuamente con l’esposizione solare e il variare delle trasparenze sul paesaggio illuminato.
E’ senza dubbio un edificio misterioso, del quale si sa davvero poco. Persino i motivi del coinvolgimento di Mario Bacciocchi, architetto milanese, in questa vicenda edilizia, che io sappia, non è mai stato sviscerato. Bacciocchi non era certo uno dei principali architetti milanesi del periodo e quest’opera si pone ai vertici della sua produzione personale e all’interno dell’esperienza più lirica del movimento moderno.

Si tratta senza dubbio di un’esperienza che sembra ripercorrere quella dei sacrari del periodo prebellico ma è priva di quella retorica e si esprime con una compostezza che non sappiamo riconoscere a Oslavia, Caporetto o Redipuglia. Allo stesso tempo si tratta di una “macchina” molto diversa da quelle attrezzate da Bogdan Bogdanovic nello stesso periodo a Vukovar, Jasenovac, Mostar, o all’apparato di Ravnikar a Rab. Se questi grandi monumenti sono fatti per essere guardati nel dettaglio della piccola scala, in quello di Bacciocchi la dimensione territoriale del dialogo paesistico non solo si amplia, ma coinvolge anche il territorio che dalla macchina si vede. A Medea c’è una visione meno simbolica dei segni e l’architetto ha cercato di porre l’edificio all’interno e in costante dialogo con un paesaggio ampio. Qui il senso del luogo si esprime e viene reinterpretato in un contesto non umanizzato. Un colle mai insediato, gestito come un grande pascolo pubblico, diventa l’occasione per costruire una macchina prospettiva che poco ha a che vedere con il tema del progetto.

Il muto monumento non racconta i motivi della sua costruzione, non è proprio un’architettura parlante, ma costringe il visitatore a percorrerlo e ad attraversarlo, lungo direttrici di volta in volta diverse, per scoprire nuovi scorci e l’effetto del sole sulle superfici marmoree. Persino l’apparente simmetria del disegno del recinto sacro che contiene l’Ara viene infranta dall’aria. A Sud il lungo e monumentale colonnato viene tamponato da una superficie marmorea che ha il compito di schermare la luce del sole durante le ore più calde dell’estate riparando l’ara. La permeabilità del recinto viene garantita comunque sollevando il setto marmoreo e aprendo la prospettiva verso quelle che erano le balze pascolive dei rilievi occupati dalla chiesetta di San Antonio, ormai trasformati in un bosco mediterraneo quasi continuo. Al contrario, a Nord la trasparenza verso la conca goriziana è massima.
L’edificio si attacca a terra senza organizzare gli spazi del contesto dichiarando di porsi in relazione al lontano, più che al vicino, esattamente il contrario di quello che era accaduto nel primo dopoguerra sullo stesso colle, quando a seguito del restauro della cappella di San Antonio era stato attrezzato una sorta di giardino oggi in crisi a causa della mancata manutenzione. Nessun verde addomesticato ha il compito di risolvere l’inserimento del monumento nel colle e non se ne sente la necessità. Solo la vegetazione spontanea sembra, anno dopo anno, intaccare la “macchina” e chiudere quelle ampie prospettive. Non a caso il Piano Territoriale del 2007 avrebbe imposto delle azioni di tutela delle viste percepibili dal colle, ma il piano è rimasto lettera morta e così ogni buon proposito.

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